Il gioiello più prezioso della rocca di Fontanellato è costituito dalla "saletta di Diana e Atteone", affrescata da Francesco Mazzola detto il Parmigianino (Parma, 1503 - Casalmaggiore, 1540), uno dei maggiori maestri del manierismo italiano.
Descrizione
Alla saletta ora non si accede dall'ingresso originario, che dava direttamente nella torre quadrata d'angolo. Si entra invece da una porta laterale, passando da una piccola stanza spoglia.
Questo stanzino è decorato dalla stessa mano che ha dipinto la Sala delle Donne Equilibriste, per cui fa parte dello stesso progetto e momento decorativo, databile ora con precisione, per una scritta emersa durante il recente restauro di questi ambienti al 1522, all'intervento di ristrutturazione che ha preceduto di poco l'intervento del Parmigianino.
La data coincide significativamente con la nomina di Galeazzo Sanvitale a colonnello del Re di Francia, Francesco I.
Il percorso, se accentua nel visitatore un senso di stupore e piacevole sorpresa nello scoprire questo straordinario capolavoro, non permette di effettuare con immediatezza una lettura corretta dell'iconografia e della struttura dell'ambiente.
La sala (4,35 x 3,90 x 3,50m) è coperta a volta, che si chiude con 14 lunette sotto la quale corre una cornice in legno laccato e bordato d'oro contenente una scritta in latino con caratteri capitali. Gli affreschi si stendono al di sopra di questa fascia nelle lunette e nella volta.
Il visitatore ora scopre come prima scena nelle lunette, quella che raffigura due cacciatori, vestiti all'antica, che inseguono una ninfa, anch'essa con il corno da caccia ed un elegante levriero legato con una corda attorcigliata al polso sinistro.
Concitati i gesti dei due cacciatori uno più giovane imberbe; l'altro, più maturo, ha una lunga barba scura, mentre la ninfa mitologica divinità dei boschi sembra cercare di trattenere con la sinistra il mantello che le sta scivolando, nell'impeto della corsa, dalle spalle e con la destra respingere o allontanare l'attacco prossimo dei due inseguitori.
Il racconto continua nella parete a sinistra di chi entra dove si vede il giovane cacciatore Atteone, che ha sorpreso la dea Diana al bagno, insieme alle ninfe che costituiscono il suo corteo. La dea irritata lo spruzza con l'acqua e il giovane,con ancora l'arco in mano,inizia trasformarsi in cervo.
Nella parete successiva, tra due cani da caccia un giovane è concentrato a suonare il corno, mentre Atteone, la cui trasformazione in cervo è completata, viene sbranato dai suoi stessi cani che non lo riconoscono. Accorrono da destra (per chi guarda) un giovane ed un vecchio.
Sulla parete, nella quale si apre la finestra, è una figura femminile, circondata da cani, che si staglia su un paesaggio arrossato dal tramonto e tiene nella destra sollevata alcune spighe e nella sinistra una coppa su di un vassoio.
L'andamento della volta è sottolineato dall'affresco, che finge nelle vele una architettura aerea rotta da grandi occhi, attraverso i quali si intravede il cielo, e decorata da un finto mosaico.
Da qui parte un pergolato coperto di fronde arboree, che si conclude in una grande siepe ottagonale di rose, che permette di vedere un ampio squarcio di cielo.
Al centro è uno specchio circolare con la scritta "Respice finem", cioè "osserva la fine" sulla cornice lignea tonda, che richiama quella che delimita l'intera parte affrescata.
Nei pennacchi della volta si muovono festosi dodici putti, alcuni alati e altri no, che recano in mano animali e frutta, che si riposano oppure sono in atto di lottare o di giocare.
I piedritti sono conclusi da teste di medusa in stucco, maschere enigmatiche, con capigliature composte da grovigli di serpenti.
All'interno della Rocca è stata allestita una struttura didattica che consente di collocare l'opera di Fontanellato nella vita e nella vicenda artistica del grande pittore.
La scritta
La scritta che corre nel fregio alla base degli affreschi inizia e si conclude nella lunetta che sovrasta l'unica finestra che dà luce all'ambiente.
Essa riassume l'interrogativo di fondo della metamorfosi di Atteone per opera di Diana: "Ad Dianam/ Dic dea si miserum sors huc Acteona duxit a te cur canibus/ traditur esca suis non nisi mortales aliquo/ pro crimine penas ferre licet: talis nec decet ira/ deas" che si può tradurre: "A Diana. Dì, o dea, perché, se è la sorte che ha condotto qui il misero Atteone, egli è da te dato in pasto ai suoi cani? Non per altro che per una colpa è lecito che i mortali subiscano pene: una ira tale non s'addice alle dee".
L'apertura e l'ampliamento della finestra, come diremo, ha provocato la rottura dell'asse del fregio con rozze interruzioni per cui è caduta la decorazione a forma di foglia che apriva la scritta (è visibile quella finale) e forse altre parole. La lettera iniziale "ad" è tronca.
Il percorso della scritta suggerisce che la vera e propria visione e lettura della saletta deve dunque partire dalla lunetta della figura femminile che offre coppa e spighe e non da quella, introduttiva già alla storia di Atteone, sulla quale si sofferma all'inizio oggi lo sguardo del visitatore.
La fonte letteraria
La storia di Atteone e Diana è tratta dalle Metamorfosi del poeta latino Publio Ovidio Nasone (Sulmona 43 a.C. - Tomi, Nesia 170 18 d.C.), un'opera in 15 libri, che racconta in versi una serie di leggende greche e romane incentrate sulle trasformazioni di uomini e donne in animali, piante o cose. Ovidio racconta la storia di Atteone nel III (138-253) libro.
L'opera ben conosciuta nel Medioevo - Dante e Petrarca, ad esempio, la ripresero ampiamente - era anche ben nota a Parma, dove l'opera omnia di Ovidio fu stampata nel 1477, mentre le Metamorfosi furono stampate, con il commento di Domizio Calderini, nel 1479.
Un'altra edizione è del 1480. Nel 1505 il veneziano Raffaele Regio si era rivolto al tipografo parmigiano Francesco Mazali per ristampare il suo commento alle Metamorfosi, dopo che era stato pubblicato in patria senza autorizzazione l'anno precedente.
Per cui ne abbiamo un'altra edizione illustrata da splendide xilografie, in pochi anni. Una postazione del Regio dedicava il volume al canonico del Duomo di Parma Pascasio Beliardi, un personaggio importante che avrà a lungo rapporti con il Correggio.
Nel testo originale latino, sin dall'inizio, Ovidio invita il lettore a riflettere sul fatto che Atteone commette uno scelus, un errore senza colpa, involontario, a causa del fortuflae crimen, del delitto della fortuna. Così termini di fato, fortuna, caso ricorrono continuamente nella fonte letteraria.
La scritta che commenta l'affresco di Fontanellato anche se riprende la problematica presente nell'originale ovidiano, tuttavia non è tratta direttamente da Ovidio e la si deve supporre opera originale di un letterato del XVI secolo.
La favola di Atteone
Atteone, giovane impulsivo, amante della caccia, secondo la leggenda, mentre i compagni si riposano, dopo una fortunata ed eccitante battuta, continua da solo a cercare selvaggina nei boschi, nei cui recessi si avventura senza precauzione nonostante l'avanzato tramonto.
Sorprende cosi Diana, dea figlia di Giove e Latona che rappresenta la Castità e la Luna della quale porta il simbolo della falce crescente sulla fronte , anch'essa cacciatrice per eccellenza che si sta bagnando in una fonte con le sue ninfe.
Cerca di fuggire, ma la dea irritata lo trasforma in cervo, per cui viene sbranato dai suoi stessi cani sotto gli occhi dei compagni di caccia, che ignari rimpiangono di non averlo tra loro.
Interessante confrontare la xilografia che illustra l'opera del Regio con l'iconografia del Parmigianino.
La primain un' unica
immagine riassume i diversi momenti salienti durante i quali si viene
sviluppando il dramma del giovane cacciatore, mentre il Parmigianino introduce
alcuni elementi non presenti nella fonte letteraria come i due cacciatori che
inseguono la ninfa, evidentemente per sottolineare la non colpevolezza
dell'offesa che Atteone reca alla dea.
Il
committente degli affreschi: Galeazzo Sanvitale
La saletta fu commissionata al Parmigianino dal conte Galeazzo Sanvitale, figlio di Jacopo Antonio e Veronica da Correggio.
Era nato nel gennaio o febbraio 1496, poiché in un processo svoltosi nel 1531 alcuni testimoni lo dicono generato alcuni mesi dopo la battaglia di Fornovo, che vide il re di Francia Carlo VIII scontrarsi con le truppe della lega italiana, comandate da Francesco Gonzaga, marchese di Mantova.
La battaglia di Fornovo segnò l'inizio di quel periodo lungo e tormentato che vide la lotta di Francia e Spagna per contendersi la supremazia sull'Italia.
Di fronte all'aggressiva politica espansionistica di regni nazionali ormai saldamente definiti, i principi italiani divisi in diversi stati a dimensione regionale e provinciale, non seppero organizzare una reale comune opposizione.
Questa stagione cruenta e avventurosa, nella quale ogni viltà e ogni eroismo furono consumati, nel segno di una crisi, che il tormento delle anime, provocato dai problemi esplosi, ma già latenti, con la riforma luterana, rese ancora più inquieto e lacerante.
La nobiltà parmigiana ai confini del Ducato di Milano, di cui Parma era terra estrema, vive così un'ultima possibilità di avventura e di fortuna, approfittando del tumultuare di eventi che da Fornovo (1495) alla pace di Cateau-Cambrésis (1559) sembravano aprire spiragli a rapide ascese familiari e personali.
A Fornovo il fratello maggiore di Galeazzo, Gian Francesco, aveva combattuto nelle file francesi. Questa scelta di campo fu determinante anche per il giovane Galeazzo, che a questa parte politica, con coraggio,coerenza e sacrificio rimase legato tutta la vita.
Nel 1511 muore Jacopo Antonio che lascia eredi della proprietà indivisa ed indivisibile di Fontanellato, Belforte e Noceto, i due figli Gian Francesco e Galeazzo. Nel marzo 1512 muore Veronica da Correggio, Galeazzo, minorenne viene affidato alla tutela del fratello maggiore.
La sorella Giulia, vedova di Lionello Lupi, conferma al fratello minorenne una parte della dote della madre. La famiglia sembra unita da profondi vincoli anche quando nel luglio 1512 viene dato come tutore a Galeazzo il cognato Galeotto Lupi, che aveva sposato Lodovica Sanvitale.
Ragioni politiche più che discordie familiari sono all'origine della decisione.
Sono infatti i mesi concitati successivi alla battaglia di Ravenna (11 aprile 1512) dopo la quale i francesi, che allora erano signori anche di Parma, abbandonarono precipitosamente l'Italia, lasciando completamente indifesi i loro alleati. Tra questi era senz'altro Gian Francesco Sanvitale, che amava più che il titolo di conte quello di "cavalero", cavaliere.
Titolo che sarà preferito anche in seguito dallo stesso Galeazzo, sia per indicare una vocazione alle armi, sia una concezione della vita che aveva richiami nella poesia epica delle corti padane più che in modelli reali.
Comune ai due fratelli è anche una cultura umanistica raffinata, elitaria, modellata sulla conoscenza dei classici, che prediligeva gli autori con forti richiami allegorici e morali.
Nella speranza di salvare alla famiglia il feudo di Fontanellato, Gian Francesco, troppo compromesso con gli sconfitti francesi, delega Galeazzo a giurare fedeltà a Roma al papa Giulio Il, nuovo signore di Parma, e lo fa accompagnare dal conte Jacopo da Correggio e da Melchiorre Bergonzi.
Per accentuarne l'autonomia inoltre, nel dicembre 1512, divide in due parti ben distinte anche la rocca di Fontanellato, assegnando a Galeazzo una serie di ambienti a lui riservati.
Nel 1513 muore Galeotto Lupi che lascia erede delle proprie sostanze il pupillo Galeazzo. Nel 1515 Lodovica Sanvitale sposa in seconde nozze il conte Alessandro Pepoli di Bologna.
Nonostante questi eventi l'accordo tra i due fratelli Sanvitale sembra consolidato.
Nel 1516 Galeazzo sposa Paola Gonzaga, figlia di Lodovico, marchese di Sabbioneta. Paola era la maggiore di nove figli, tutti, maschi e femmine, educati con uguale cura.
Sua sorella Giulia, aveva sposato Vespasiano Colonna e fu una delle donne più affascinanti del rinascimento, protagonista, con la cognata Vittoria Colonna, del non certo ortodosso, dal punto di vista cattolico, movimento riformistico italiano, che avrà caratteristiche peculiari.
A Fondi, Giulia creerà una corte umanistica di straordinaria importanza per il rinnovamento della sensibilità religiosa.
Paola che non interromperà mai i rapporti con la corte paterna sarà sempre vicina a Galeazzo, per cui stupisce che questo personaggio non sia stato sufficientemente messo in luce dagli studiosi.
Tra il 1516 e il 1530 la corte di Fontanellato si trasforma in un centro culturale ed artistico. E una corte formata da giovani, dove l'entusiasmo e la curiosità intellettuale si mescolano con sogni d'avventura e con forti spinte al rinnovamento interiore e morale.
Ne fanno parte Gian Ludovico' fratello di Galeazzo, che tornava a Fontanellato per riposarsi dai suoi studi a Pavia e il coetaneo cugino Girolamo Sanvitale di Sala Baganza, figlio di Nicolò e di Beatrice da Correggio, detta "Mamma", titolo con il quale è ricordata anche dall'Ariosto.
Girolamo Sanvitale protegge un discusso personaggio come Tiberio Rosselli, detto alla latina Russeliano, del quale, nel 1519, finanzia la stampa dell'Apologeticus uscito a Parma per i tipi degli Ugoleto.
Il testo viene subito condannato come eretico e perseguitato dall'Inquisizione. Le sue tesi di riforma del cristianesimo erano riprese da Giovanni Pico della Mirandola famiglia alla quale Galeazzo sarà legatissimo per decenni e della quale condivide la fede politica e saranno riferimento per pensatori inquieti come Pomponazzi.
Per salvarsi dall'Inquisizione Russeliano si rifugia certamente a Sala, se non nella stessa Fontanellato. Nel 1523 Giovanni Delfini dedica a Gerolamo Sanvitale la propria,non certo ortodossa, interpretazione del libro VI dell'Eneide. Delfini è un rappresentante del nicodenismo italiano, movimento che nel nome della tolleranza, proponeva di conciliare ogni filosofia ed ogni religione.
Posizione che nello scontro tra riforma protestante ed ortodossia cattolica sarà perdente e destinata ad essere osteggiata e condannata da entrambi i fronti.
A Sala o a Fontanellato il Russeliano conosce Benedetto Albineo o de' Bianchi, che lascia una testimonianza importante nella fortuna della favola di Atteone nella cultura parmigiana.
Nel 1519 infatti Tranquillo Molossi, poeta nativo di Casalmaggiore, aveva inviato all'Albineo un poemetto nel quale descriveva una battuta di caccia a cui aveva partecipato il cardinale Alessandro Farnese, il futuro papa Paolo III, vescovo di Parma, nell'alto Lazio.
Alla caccia era seguito un banchetto durante il quale il poeta parmigiano Mario Grapaldo era stato invitato a declamare suoi versi. Egli scelse di cantare proprio il mito di Diana e Atteone.
Questi significativi indizi ci permettono di ricostruire il clima culturale nel quale si viene formando l'esigenza di commissionare un'opera come la saletta al Parmigianino.
Nel 1522 Galeazzo, nominato l'anno prima colonnello del re di Francia, aiuta il cugino Girolamo nella lotta contro i Rossi.
Dopo la battaglia di Pavia (1525) che vede di nuovo i francesi sconfitti, i Sanvitale saranno oggetto di duri attacchi da parte del Comune di Parma.
Con i due cugini è presa di mira anche Laura Pallavicino dei marchesi di Zibello, moglie di Girolamo, che aiuterà Galeazzo, nel 1527, ad acquistare il casino di Codiponte a Parma (l'attuale palazzetto Eucherio Sanvitale, nel giardino ducale) nel quale recentemente è stato ritrovato un affresco del Parmigianino, da Scipione Dalla Rosa, uno dei committenti del Correggio.
Nel 1539-40, in collaborazione con i Pico e per ordine del re di Francia, Galeazzo tenterà di conquistare Cremona alla propria parte, preparando un attentato che viene scoperto. Con i Farnese, nuovi signori di Parma dal 1545, a lungo filofrancesi, egli si trova in perfetta sintonia.
Alla morte di Pierluigi, ucciso a Piacenza dai filoimperiali, egli si rifiuta di giurare fedeltà all'imperatore Carlo V e fortifica Fontanellato che resisterà alle truppe di Ferrante Gonzaga che cerca di togliere Parma, dopo Piacenza, ai Farnese.
Muore sul finire del 1550.
Dopo la morte di Gian Francesco e di Girolamo la compattezza dei rapporti familiari si incrina, dal 1530/31, Galeazzo si troverà a lungo a scontrarsi legalmente con la cognata Laura Pallavicino, tesa a difendere i diritti dei propri figli che teme vengano defraudati dei loro beni.
Nel 1541 si arriverà addirittura ad un processo nel quale Laura accusa Galeazzo e Paola Gonzaga di aver tentato di avvelenarla.
Processo che si risolve senza conseguenze grazie all'intervento del Pepoli.
Datazione
della Saletta
Del 1524 è il ritratto
datato che il Parmigianino ha fatto a Galeazzo Sanvitale e che oggi è
conservato a Napoli nella Galleria Nazionale di Capodimonte. Nel ritratto il
giovane conte è seduto su di una savonarola, vestito elegantemente alla
francese. In mano tiene un enigmatico disco sul quale è stato letto il numero
72.
Le armi a lui vicine ricordano la sua missione di combattente. Secondo le più recenti interpretazioni il quadro va letto in chiave allegorico religiosa. Esso esprime una concezione di Dio che tonda insegnamenti diversi: da quelli cabalistici a quelli delle filosofie classiche, a quelli del pensiero riformista da Giovanni Pico della Mirandola al Savonarola.
Nell'uomo è il riflesso di Dio che solo un occhio attento ed una forte tensione morale, oltre che intellettuale, può cogliere come attraverso uno specchio.
A spiriti eletti è dato quindi scoprire l'unicità del creato, del suo Creatore e la loro inscindibile unità.
Questa dottrina che sembrava riservata a pochi, in realtà veniva a presupporre come postulato consequenziale la salvezza eterna come riservata a tutte le creature, proprio perché troppo dura e troppo esclusiva era la ricerca di Dio, che si risolveva nella propria interiorità.
Sulla scorta di questo
dato certo del ritratto di Napoli ed in base ad elementi stilistici emersi
specialmente dopo gli ultimi restauri, gli studiosi oggi sono concordi nel
datare gli affreschi del Parmigianino a Fontanellato al 1523 circa, ad un
periodo comunque giovanile e precedente al soggiorno dell'artista a Roma
(1524-1530).
Storia
della struttura architettonica della Saletta
L'ambiente che racchiude, come in uno scrigno, il prezioso affresco del Parmigianino è stato ricavato a ridosso del muro della cortina originaria trecentesca della Rocca, sul lato più antico della fortificazione, immediatamente a ridosso della Torre quadrata un tempo molto più elevata, che come nei castelli francesi aveva la funzione di mastio.
Lo spesso baluardo esterno di difesa non aveva certamente aperture verso l'esterno. Le finestre di questo lato sono infatti indubbiamente posteriori e senz'altro ulteriormente ampliate nel XVIII secolo, provocando anche, all'interno, alcune gravi ed evidenti mutilazioni agli affreschi, oltre che la frattura del fregio ligneo con la scritta che ne commenta l'iconografia.
Si può quindi ipotizzare che originariamente l'ambiente fosse illuminato solo artificialmente, senza alcuna interferenza della luce naturale.
Questo fatto rende ancor più suggestivo il gioco di luce, nel passaggio dall'avvampare del tramonto alla oscurità della notte, che scandisce, nel tempo della giornata, gli eventi dipinti e che, anche spazialmente, corrisponde a quanto avveniva ed avviene nella realtà esterna. E infatti su questo lato che tramonta il sole.
Questa ambientazione naturalistica accentuava il contrasto tra il piccolo ambiente chiuso e la decorazione che finge un esterno, di lieve se non inesistente architettura ma il mosaico dei piedritti, che richiama quelli della neroniana Domus aurea di Roma, ne accentua ed elude nello stesso tempo, lafisicità che si risolve in un invenzione precaria di reticoli e intrecci arborei, in una tessitura verde e fiorita.
La stessa rudezza della muratura, il suo spessore, la sua apparente eternità e la sua forza simbolica contrastano con questa delicata trama di spazi naturali e di architetture create dell'uomo, delicate ed effimere, oltre le quali ed all'esterno delle quali appaiono le figure di un dramma senza tempo.
Spazio aperto e gentile in una ferrigna fortezza.
L'ingresso originale era quello stretto passaggio, che attraverso la risalita di alcuni gradini consente di comunicare con la torre d'angolo.
Per entrare si saliva dunque verso l'alto e la prima figura che seguiva il visitatore era quella di una femmina di bracco, posta sulla parete della scena della tragica morte di Atteone, che non perdeva d'occhio il lento ascendere con sguardo fisso ed inquietante.
Successivamente invece era stata aperta una porta che metteva in comunicazione la saletta del Parmigianino con la sala delle donne equilibriste, che venne chiusa durante lavori di restauro degli affreschi perché riconosciuta non originale.
La sala delle donne equilibriste e il vicino ambiente che aveva la stessa decorazione veniva così a chiudere, o meglio celare questo locale che per la sua collocazione, acquistava un carattere segreto, estremamente appartato e riservato, in uno spazio ed in ambienti che, posti come sono al piano terreno, non dovevano essere destinati all'intimità domestica del castellano, ma, al contrario, aperti al pubblico o di servizio.
I Sanvitale infatti abitarono sempre al piano nobile dove avevano i propri appartamenti.
Questa sala oggi appare spoglia e i lacerti di affreschi e la penuria di arredi accentuano questo senso di desolazione.
Il soffitto a grosse travi nude con un accenno di volta ai lati ha fatto pensare che, in origine la stanza fosse voltata (Augusta Ghidiglia Quintavalle), proprio perché sembrava inadeguata al fianco della straordinaria invenzione della saletta del Parmigianino.
Ora, dopo gli studi di Ute Davitt Asmus, sappiamo che questo ambiente non solo non era collegato all'altro, ma possiamo supporre che avesse una funzione pubblica, per ricevere ospiti, ad esempio, o per prepararsi per una battuta di caccia o al ritorno festoso con la preda.
La decorazione della sala funge, in monocromo, una trabeazione il cui fregio è sorretto da colonne tortili che poggiano su una finta alta balaustrata.
In questa architettura dipinta si inseriscono tra colonna e colonna, figure femminili, amorini, sfingi, animali mitologici e trofei che sembrano danzare librati a fili sospesi.
La decorazione alla rustica, pur nella ricchezza inventiva, fa pensare ad una certa povertà artistica. In realtà questo ambiente che lascia tra le colonne ampi spazi bianchi dobbiamo immaginarlo reso cromaticamente vivo da arazzi appesi alle pareti e disposti negli intercolunni, arazzi dei quali è documentato i Sanvitale erano abbondantemente forniti.
Con questo completamento la stanza acquistava un diverso significato.
Essa appariva come un padiglione, cioè come uno di quegli edifici in legno, provvisori, che venivano creati nei giardini e nei boschi per il riposo dei signori dalle fatiche della caccia, di un viaggio o dalle cure degli affari.
Luoghi di otium di rasserenamento, di intimità con pochi eletti, ma luoghi a tutti visibili, quasi senza segreti, mentre ben diverso era il significato della saletta occultata del Parmigianino, della quale parlerà per la prima volta il Fontana nel 1696, molti decenni dopo che essa era stata dipinta, quasi fosse un segreto di famiglia, da custodire e celare gelosamente.
I restauri
Gli affreschi in ottimo stato di conservazione furono ritoccati in parti che rischiavano di scomparire nel XVIII secolo, secondo una tradizione, da Felice Boselli.
Nel 1836 intervenne sulle pitture Gian Battista Borghesi (1790-1848), su incarico del conte Luigi Sanvitale, che il 17 ottobre lasciò una relazione scritta del lavoro fatto consistente in due "riparazioni": Una riparazione ho cercato di fare in un cervo, in un cane vicino ad esse, e nel fondo, essendo questo di muro in modo che stava per cadere un pezzo d'intonacatura.
L'altra riparazione ho cercato di fare in un Ninfa, la quale, dai lombi in giù venne ridipinta ad olio".
Un restauro fu effettuato, tra il 1962 e il 1967, da Renato Pasqui, che con accuratezza filologica ha lasciato tracce evidenti della situazione precedente e ha liberato la ninfa che affianca Diana al bagno danneggiata irreparabilmente nei secoli precedenti, come si è visto dalla ridipintura "in stile" che aveva effettuato il Borghesi.
L'ultimo restauro
(1997-1998) è stato effettuato da parte di tecnici dell'Opificio delle Pietre
Dure di Firenze.
Lettura
simbolica
Largo seguito ha avuto la suggestiva proposta di Augusta Ghidiglia Quintavalle che, sulla traccia di una frase dubitativa di uno scrittore settecentesco, la cui opera è ancora manoscritta, ha ipotizzato che la saletta fosse un "bagno" per Paola Gonzaga.
Fagiolo dell'Arco ha letto, 1970, l'ambiente collegandolo alla cultura "alchemica" del Parmigianino, per cui il "bagno" esprimerebbe la coniutìctio del principio maschile con quello femminile.
Più recentemente Germano Mulazzani, 1980, propone di leggere negli affreschi il contrasto tra Paola Gonzaga in veste di Pomona e Diana come una positiva valutazione dell'agricoltura fertilità e dei suoi benefici contrapposta alla caccia castità, che produce violenza.
Per primo l'autore inoltre mette in dubbio che la stanza sia servita come bagno e nega erroneamente che lo specchio facesse parte della decorazione originale, ignorando che esso è ricordato già dal Fontana nel 1696.
Le novità interpretative maggiori sono venute dalle pluriennali ricerche di Ute Davitt Asmus, delle quali riassumiamo i punti fondamentali, che individuano tre momenti nella narrazione della vicenda di Atteone: la caccia d'amore, la fonte e la morte.
La caccia d'amore è rappresentata dall'episodio che molti hanno sottolineato come completamente estraneo alla originaria fonte ovidiana: l'inseguimento da parte di due uomini di una ninfa dalle forme seducenti, bella, libera, anch'essa cacciatrice, come denuncia l'abbigliamento.
Va interpretato secondo le allegorie del tempo, come abbandono a "ciechi desideri", ai pensieri vani, agli stimoli dei sensi, che pure, in contrapposizione all'interpretazione medioevale del mito di Atteone punito per la sua curiosità lasciva, l'umanesimo aveva recuperato.
I cani rappresentavano, in una simbologia che ebbe notevole fortuna, i pensieri "veloci e intensi" ed i pensieri alla ricerca della presenza del divino.
Anche l'amore umano ha un suo valore positivo che èquello di trasformare l'amante nell'amato, concetto che si trova in Pico della Mirandola, come in Cusano, fino a Giordano Bruno.
Ed è appunto dall'amore umano, dall'amore dei sensi che inizia un processo di mutamenti e di metamorfosi che, umanisticamente, spinge l'uomo a modificarsi "in meliorem sortem", in una condizione superiore.
E' per questo che la concitazione della caccia d'amore si arresta davanti a Diana, non più onnipotente dea, ma personificazione della luna, che cresce e diminuisce, cambia continuamente aspetto, immagine della creatura in continua trasformazione.
Luna che non vive però di luce propria, ma riflette solo i bagliori che riceve da Dio.
E' presa di coscienza, momento di illuminazione, rappresentata appunto dagli spruzzi d'acqua che la dea lancia contro la figura che si sta trasformando in cervo, che volgendo il capo vede e comprende quello che realmente succede nella caccia d'amore.
Capisce che nulla di ciò che esiste rimane uguale a sé stesso, né la vita, né l'amore, che dall'amore deriva la gravidanza, il parto, Diana ne era la dea protettrice come aveva legami con la morte altro aspetto connesso alla divinità.
Eppure anche la morte è transitoria, da essa scaturisce la vita, di nuovo. Così la figura che si trasforma in cervo inizia questa nuova metamorfosi che, in chiave cristiana, non può che portarla, una volta illuminata dal sapere, aperti gli occhi sulle realtà più profonde del semplice inseguire dati fenomenici, ad imitare il Cristo.
Il cervo è un antico e persistente simbolo di Cristo.
Il cervo morente non fa quindi che seguire l'esempio del Cristo, si assimila a lui, alla sua passione.
La sua morte, come quella del Salvatore, è transitoria, proprio perché giustificata e riscattata dal suo sacrificio.
E il tema della morte ritorna negli oggetti che tiene in mano la padrona di casa Paola Gonzaga che guarda verso la scena della morte del cervo, un cantaro un antico vaso greco con corpo a calice su alto piede a due anse alte verticali a nastro e spighe di grano, antichi simboli di riti funerari.
Tutto questo avviene sotto un'architettura che, si è detto, appare essenziale, effimera, più che di spessi mattoni.
Edifici del genere venivano eretti dagli ebrei per solennizzare la "festa dei tabernacoli", una festività settembrina, che ricordava la liberazione dalla schiavitù egiziana, simbolo di una vita imprigionata, i cui vincoli si spezzano e dalla quale nasce la libertà, festa anche del perdono.
Nel 1525 il comune di Parma si lamentava con il suo ambasciatore a Roma, Antonio Gabrielli, "circa li ludei [chei vogliono essere tirati in questo contado da alcuni di questi feudatari, che non curano la inimicizia di Dio" per cui chiedevano misure per impedire la permanenza nel parmigiano, bandendoli e colpendo severamente anche i loro protettori: Sancto Secondo, Fontanellata e Puvio (Poviglio) sono quelli che fanno questa poltroneria et per avaritia".
Il documento storico dunque non solo conferma la presenza di ebrei a Fontanellato, ma che Galeazzo Sanvitale, come i Rossi di San Secondo e Rodolfo Gonzaga a Poviglio, li proteggeva e ne incoraggiava la permanenza.
Nella festa dei tabernacoli, dunque, gli ebrei costruivano una casa provvisoria, le pareti in legno potevano fingere anche un vero ambiente, l'essenziale era che la copertura fosse di rami intrecciati, di fronde arboree, che lasciasse trapassare il cielo.
La festa ebraica trovava il suo massimo fulcro quando tutta la famiglia era riunita, alla sera, nell'abitazione effimera.
Era una festa familiare, nella quale l'abitazione di ogni giorno era abbandonata per sottolineare che la unità familiare rappresentava il vero tabernacolo nel
quale ogni giorno l' uomo vive. Un altro documento ci chiarisce meglio gli eventi: il 4 settembre 1523 il cardinale Innocenzo Cybo nomina due delegati per somministrare il battesimo ad un maschio nato da Paola Gonzaga e Galeazzo Sanvitale.
Di questo figlio non abbiamo altre notizie, ma la cerimonia sembra essere sollecitata con impazienza.
Non è molto avventato supporre la morte del piccolo, come confermano le immagini dei due piccoli, già da tempo, secondo una tradizione familiare dei Sanvitale, identificati come figli di Galeazzo, nel peduccio centrale della parete sinistra.
Il piccolo tiene in mano le ciliegie, un tipico simbolo funerario, presente anche in diverse immagini contemporanee di Cristo bambino e che tale rimane fino al XVII I secolo. Allora si spiegano meglio le immagini e le allusioni del testo pittorico.
Si comprende anche come dalla prima idea elaborata dal Parmigianino per la saletta con il ratto d'Europa, oltre che con quello di Diana, con la presenza di Galeazzo al fianco della moglie, si sia passati a raffigurare la sola Paola Gonzaga e un solo mito, in una chiave affatto particolare e privata.
La stanza dunque è stata dipinta per Paola, come rifugio, come isolamento in un momento di grande dolore, come aiuto ad una riflessione che doveva trasformare una vicenda personale, anche se straziante, in una elaborazione di una nuova consapevolezza.
La chiusa ed elitaria società che si muoveva intorno al Parmigianino, Galeazzo per primo, denuncia una autocoscienza molto forte, una volontà precisa di uscire dalle forme ripetitive del pensiero, dagli stereotipi, dagli schemi convenzionali.
Rifletteva sulle proprie vicende, anche le più intime e soggettive, cercando nelle immagini del mito, nell'arte, modelli di pensiero personali, ma anche collegati ad una cultura, ad un sentire sociale che era aristocratico e dei dotti.
Così la storia di Atteone è da leggere al femminile. Atteone che si trasforma in cervo non è altro che la figura della ninfa inseguita che muta, ha le stesse vesti di lei, lo stesso corno appeso alla cintura, ha il colorito chiaro delle carni femminee, che contrastano con quelle più scure dei personaggi maschili.
E' la storia di una signora, Paola appunto, che ha provato il dolore umano e la morte e porta ancora i simboli della passione in mano il richiamo al pane e al vino dell'Ultima Cena , ma che è anche riuscita a guardare oltre.
Il ritratto di Paola Gonzaga irradia una profonda serenità interiore, ella riesce a guardare allo strazio del cervo e al proprio piccolo con distacco, perché sa che quegli eventi non rappresentano che una tappa in una trasformazione più alta, alla quale la richiama anche il messaggio posto intorno allo specchio.
Le teste di medusa, espressione di una chiusa tristezza che spinge al disperare, sono l'unico motivo statico di questa stanza, figure sassose, bloccate nella pietra che non hanno saputo o potuto liberarsi.
Fondamentale è il gioco degli sguardi tra le figure, compresi i cani che nella diversità delle forme e del sesso sottolineano pensieri più o meno spirituali.
Così il suonatore di corno, che assorto sembra non accorgersi di quanto accade al cervo, indica, ancora una volta la via che è quella del riflettere sulle parole, sul verbo, che è l'essenza stessa di Dio.
In ebraico il corno è detto yòbèl da cui giubileo, nel senso di festosità, allegria.
Questa attenzione alle parole èsottolineata dalle due ninfe al fianco di Diana che si guardano tra loro.
Una di esse tocca un oggetto, oggi, dopo i diversi restauri difficilmente identificabile, ma ben visibile in un'antica litografia di Vigotti: due libri, la cui presenza è veramente strana in un bagno.
Ma le ninfe rappresentano coloro che vivono nell'elemento del verbo, e la fonte, oltre che evidenti valori simbolici legati al culto cristologico, indica anche il luogo stesso di Fontanellato, fontana lata, in un rimando continuo tra privato e pubblico, tra personale e collettivo.
Altro elemento fondamentale è la luce che doveva essere artificiale e doveva quindi giocare sullo specchio e contemporaneamente riflettersi nella luminescenza che dal tramonto alle spalle di Paola si incupisce verso il notturno che circonda Diana.
Questo singolare mondo di simboli è dunque una riflessione che non poteva che essere condotta nel ritiro, nel privato più assoluto, da qui il modo con il quale la saletta si cela nell'intrigo dell'architettura dell'edificio, quasi segregata.